Il nuovo modello contrattuale rappresenta una manutenzione di quello attuale, con la conferma dei due livelli, il contratto nazionale di categoria e quello decentrato (aziendale o territoriale), ma all’insegna della flessibilità. Si lasciano infatti libere le categorie di trovare gli aggiustamenti tra le voci retributive nei due livelli che meglio si attagliano alle caratteristiche del settore, basta che si muovano all’interno di due parametri nuovi, entrambi individuati nel contratto nazionale: il Tem, «Trattamento economico minimo» e il Tec, «Trattamento economico complessivo», comprese le «eventuali forme di welfare». I minimi, come definiti dalle categorie, si adegueranno all’indice di inflazione Ipca al netto dei prezzi importati dei carburanti, ma ciascun contratto sceglierà il meccanismo, cioè aumenti in base alle previsioni (come fanno per esempio i chimici, salvo conguaglio) o a consuntivo (i metalmeccanici). Questo sistema viene però inserito in una cornice potenzialmente molto innovativa. Si punta infatti a realizzare l’efficacia erga omnes dei contratti con una legge di sostegno sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali e – novità importante – di quelle imprenditoriali. Accordi in questo senso Cgil, Cisl e Uil li hanno già sottoscritti con altre organizzazioni come la Confcommercio e quindi il terreno sarebbe pronto per compiere questo salto non di poco conto, tenendo conto che storicamente sia la Cisl sia la Confindustria sono state contrarie a una legge sulla rappresentanza.
A convincere tutti della necessità di questo salto è stato il moltiplicarsi dei contratti pirata, stipulati da associazioni imprenditoriali e sindacali poco rappresentative ma grazie ai quali molte aziende, soprattutto nel terziario e nel Sud, hanno potuto applicare minimi retributivi inferiori a quelli dei contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative, cosa che non sarebbe più possibile una volta fatta la legge. Come risulta dal censimento del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, i contratti nazionali sono arrivati a quota 868, dei quali 213 solo nel commercio, ma ce ne sono per esempio 31 nella metalmeccanica e altrettanti nel tessile.
Nel testo messo a punto dagli sherpa (Albini per la Confindustria, Martini per la Cgil, Petteni per la Cisl e Bocchi per la Uil) si legge: «Confindustria e Cgil, Cisl, Uil ritengono che l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi di lavoro costituisca un elemento qualificante del sistema di relazioni industriali e che le intese in materia di rappresentanza possano costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per la definizione di un quadro normativo in materia». L’eventuale firma dell’accordo prima delle elezioni consegnerebbe al Parlamento e al governo che verranno l’indicazione di una precisa volontà delle parti di intervenire con decisione contro il dumping salariale frutto dell’indeterminatezza delle regole. Un’indicazione fondamentale per le parti sociali per mantenere nella contrattazione la loro ragion d’essere, altrimenti minacciata anche dalle proposte di salario minimo per legge. Come quella, per esempio, del Pd, che pur muovendo dall’obiettivo di tutelare le figure deboli prive di contratto (tipo i ragazzi che per pochi euro fanno le consegne) potrebbe finire per restringere il potere contrattuale delle parti.
La bozza contiene poi altre importanti novità. Dalla valorizzazione del welfare aziendale alla promozione di «modalità di partecipazione più efficaci ed incisive con particolare riferimento agli aspetti di natura organizzativa» dell’impresa.